Sei anni dopo avere già ottenuto l’attenzione internazionale con il documentario Paradise! Paradise!, la regista di origine curda Kurdwin Ayub, nata in Iraq ma cresciuta a Vienna dove vive e lavora, esordisce al lungometraggio di finzione con Sun, intelligente mosaico di formati, app, paste dell’immagine, filtri, e linguaggi pop con cui ragionare su quanto possano essere profonde le influenze della contemporaneità social sulla formazione e sulle scelte della generazione, ora adolescente, dei nativi digitali. Un film sul difficile adattamento ai diversi codici di un’appartenenza multiculturale al contempo islamica ed europea, sullo scontro che diventa dilemma esistenziale fra le istanze conservatrici più tradizionali e quelle progressiste che guardano al futuro, ma anche su un’integrazione nella quale, ovunque ci si trovi, non si smette mai di sentirsi stranieri. Già migliore opera prima alla scorsa Berlinale, dove venne presentato nella sezione Encounters, giunge ora a illuminare il concorso del 34mo Trieste Film Festival.
Tre(ndsetters)
Tre adolescenti di Vienna fanno twerk in hijab e cantano musica pop. Un video su YouTube le rende famose da un giorno all’altro, soprattutto tra i curdi musulmani. Yesmin, l’unica delle tre amiche a essere curda, prende sempre più le distanze dalla sua cultura. Nati e Bella, invece, sembrano affascinate da questo mondo a loro sconosciuto. Quando le ragazze incontrano due giovani patrioti curdi, la situazione rischia di degenerare. Un film sui giovani tra social media e scoperta di sé, una storia di giovani donne ribelli. [sinossi]
«That’s me in the corner
That’s me in the spot-light
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don’t know if I can do it
Oh no I’ve said too much
I haven’t said enough»
R.E.M., Losing my religion
Sembra quasi che si possa tenere fra l’indice e il pollice, quel piccolo sole ormai basso sulla linea del tramonto da afferrare in fondo all’orizzonte di Sun. Eppure, nell’apparente contatto fra l’astro e i polpastrelli, non c’è nulla di realmente tattile, non c’è nulla di fisico, non c’è nulla di vero. È solo un effetto ottico, è solo l’effimera (in)consistenza di un’illusione che può vivere esclusivamente in un’immagine, è solo un’inquadratura fotografata dalla giusta prospettiva e che, spostando un solo elemento anche solo di un centimetro più in là, non potrebbe più funzionare. Le dita, inevitabilmente, pizzicano l’aria e sentono il vuoto, fisico e di conseguenza esistenziale, riservato alla realtà, ai corpi, alla fragilità degli esseri umani, mentre la loro immagine-avatar, la loro maschera social, la loro instancabile produzione di costruzioni con cui mostrarsi migliori, riesce nell’impossibile di afferrare le stelle. L’emblema di una dicotomia evidente fra essere e apparire, fra esistere e mostrarsi, fra vivere e mettersi in scena, ma anche l’emblema di come, per raggiungere e non perdere la popolarità dell’identità internautica, quella reale sia disposta a compiere gesti di fatto insensati. Magari innocenti come fingere di tenere il sole fra le dita, o magari ben più gravi come un atto vandalico di ragazzini immaturi e ribelli. Con il solo scopo di creare un’altra immagine, un’altra fotografia, un altro video in cui recitare se stessi, in una società in cui, per calcolo o per caso, chiunque può diventare icona e, come ogni icona, esibirsi nell’ennesima sua finzione d’onnipotenza, nell’ennesimo meme, nell’ennesima creazione di sé che, per non esaurirsi in un fuoco fatuo di poche ore, non può prescindere dalla periodica pubblicazione di altre nuove creazioni di sé. Non è un caso in tal senso che la regista e videoartista austriaca classe ’90 Kurdwin Ayub, nata in Iraq ma viennese sin da quando ha ricordi, rifugiata a nemmeno un anno di età nella capitale austriaca insieme alla sua famiglia curda fuggita dalla Prima Guerra del Golfo, abbia deciso di traslare gli elementi autobiografici della sua doppia identità e del suo stesso contesto familiare (centrale al punto di affidare il ruolo del padre della protagonista a suo padre, Omar Ayub), il suo vissuto quotidiano e i dilemmi esistenziali che inevitabilmente si è ritrovata a un certo punto a dover affrontare in prima persona, nella completa finzione di un personaggio e di un intreccio di fantasia ma soprattutto sulla generazione successiva, quella nata direttamente a Vienna nei primi anni Duemila e già con uno smartphone in mano. Una generazione per cui il mondo fisico e il mondo online non sono ancora realtà ben parallele, ma una zona d’ombra senza un confine ben definito in cui non è semplice decidere di fermarsi ed è ancora più complicato mettersi a nuotare controcorrente, tradendo le attese del pubblico, per mettersi a cercare se stessi. Una generazione che si affaccia sull’adolescenza, e quindi sul momento di formarsi definitivamente come individui, proprio in questi tempi soffocati dalla bulimia di immagini e dalla loro riproducibilità; giovanissimi quasi inevitabilmente influenzati nel momento di plasmare la loro identità e le loro scelte di vita dai social che li rappresentano, costantemente autoesposti ai riflettori e alle regole del gioco (le foto rigorosamente truccate e in pose vagamente allusive, per esempio, o i video in cui doversi per forza inventare qualcosa di stupido per dimostrarsi ribelli), e disposti a ricalibrare le proprie stesse giovani vite sul numero di follower. Una generazione costretta a crescere in tempi superficiali, effimeri, esteriori, così rapidi e crudeli nel masticare e poi subito sputare, e proprio per questo potenzialmente così soffocanti e pericolosi per chi, proprio al momento di emanciparsi, rimane intrappolato nelle loro dinamiche.
Eppure in realtà interessa solo relativamente parlare di emancipazione, a Kurdwin Ayub. Così come le interessa solo relativamente la femminilità islamica, le interessa solo relativamente la Fede e le interessa solo relativamente la ribellione, elementi che fanno parte del film perché fanno parte della quotidianità, ma che non si prendono mai il centro della scena. Il suo lungometraggio d’esordio, già vincitore del Premio per la migliore opera prima alla scorsa Berlinale e ora fra le vette del concorso principale del 34mo Trieste Film Festival, non ha bisogno di cliché o di grandi concetti astratti, ma al contrario cerca la concretezza del vivere personalmente una realtà in tutte le sue sfaccettature, in tutte le sue dicotomie, in tutti i suoi compromessi, in tutte le sue liquide incertezze. È per questo che la regista gioca apertamente con la verità e con l’immaginazione. Da un lato gli elementi autobiografici geopolitici e identitari di cui si accennava in precedenza, che dalla sua casa e dalla sua storia personale entrano direttamente in quelle della protagonista di una quindicina d’anni più giovane. Dall’altro una precisione per molti versi documentaria nel restituire un ritratto della comunità curda di Vienna (con tanto di matrimonio tradizionale a cui le ragazze vengono invitate a cantare) e una perfetta fotografia di una contemporaneità che, fra casa, scuola, pomeriggi e sere sempre online, non può che passare per un’infinita babele di diversi formati, screenshot, paste e grane dell’immagine, ma pure per tutti i filtri, per gli effetti di montaggio, per le applicazioni di YouTube, Zoom, Whatsapp, Instagram e TikTok, per i momenti filmati direttamente dagli attori indifferentemente in orizzontale o in verticale coi cellulari in linguaggi pop che si alternano sullo schermo, e che punteggiano la regia dinamica a mano e gli intensi primi piani delle riprese “canoniche” di altri istanti, di altre fotocamere, di altre mani e di altri punti di vista. E poi c’è ovviamente il plot di pura finzione che incornicia tutto il resto, e che prima di scegliere sin da subito le strade narrative meno scontate attraverso le quali giungere a un finale aperto e potentissimo, immagina la protagonista Yesmin e le sue due amiche non musulmane diventare virali con un video nel quale, con indosso gli hijab, cantano Losing my religion dei R.E.M., da qualche parte fra il gioco, l’omaggio e la parodia. Un brano non certo casuale, nell’intrecciarsi dei discorsi di Sun, non tanto per il sua letterale (che poi letterale non è, visto che nello slang degli Stati del Sud la Fede non c’entra nulla e si tratta semplicemente di un’espressione idiomatica per dire “perdere la pazienza”) abbandono di una religione – da sempre per Yesmin, che pure porta il velo ogni volta che esce di casa, più una forma di rispetto per le tradizioni familiari che una reale necessità spirituale – quanto per il vero significato della canzone, con cui Michael Stipe già nel 1991 esprimeva il disagio per l’eccessiva fama chiedendo alla platea di cercare la sua anima al di fuori dei riflettori, al di là della sua immagine pubblica. Che poi nient’altro è che quello che vorrebbe Yesmin, dapprima profondamente imbarazzata per la pubblicazione su YouTube di un video che avrebbe preferito fosse rimasto privato, poi sempre più infastidita dalla necessità ormai pubblica di contrapporre le sue due anime e di doversi continuamente giustificare con chiunque la giudichi dall’esterno di solo una delle due culture, e infine sostanzialmente destinata a scambiarsi di ruolo con le amiche, lei sempre più occidentale e loro, frattanto innamoratesi di due giovani e aitanti siriani, sempre più vicine a una causa curda che di fatto non conoscono e non possono realmente capire, ma di cui orgogliosamente ostentano hijab, bandiere e misteriose sparizioni nel nulla.
Eppure non c’è alcun rigido noi e loro, fra i curdi e gli austriaci del film di Kurwin Ayub. C’è, al contrario, la complicata ricerca di un reale punto di sintesi fra le origini e la cittadinanza, c’è la crisi di identità di un concreto sentirsi appartenenti a entrambe le culture anche quando sembrano antitetiche, c’è un costante evolversi e ridiscutersi dei pensieri e dei ruoli, dei comportamenti da tenere in un contesto e nell’altro, e del rispetto per tutti che mai e poi mai deve mancare nemmeno nelle opposte situazioni. Al massimo c’è chi, come la «mezza jugoslava» Bella e la bionda purosangue austriaca Nati (non a caso quella che durante l’ospitata in una televisione locale incuriosita dal successo del loro video, senza nemmeno rendersene conto, proprio mentre parla del velo come segno di rispetto e totale accettazione della cultura della propria amica curda la prevarica esprimendosi al suo posto sulle sue problematiche culturali e morali, e che poi durante un’esibizione all’ennesima festa le toglierà letteralmente la voce girando il microfono dalla sua parte), si limita a seguire il flusso degli eventi, del successo e dei crescenti like sui social fino all’ignoto, e c’è chi invece, come la protagonista, lo soffre e faticosamente ne esce per riflettere realmente su se stessa, per esplorare la propria identità senza rinunciare alle proprie origini e al proprio retaggio, per acquisire il diritto di decidere da sola e sulla propria pelle che cosa sia giusto e che cosa non lo sia, che cosa sia legittimo e che cosa non lo sia, che cosa sia rispettoso della sua cultura e che cosa non lo sia. Per confrontarsi con i traumi dei genitori rimasti chiusi per anni in una cantina prima di riuscire a fuggire dalla guerra e finalmente capire le loro sofferenze e la loro ossessione per la rispettabilità, ma anche per vivere la propria adolescenza e i propri errori personali, per affrontare i propri dubbi e le proprie nostalgie, per rivendicare il diritto di mangiare, ballare, vivere e fare ciò che le pare con il velo che lei porta e gli altri no, oppure per decidere liberamente di toglierlo, di presentarsi a scuola a capelli scoperti fra gli sguardi stupiti dei compagni, o ancora di ritrovarsi ubriaca fradicia a vomitare fuori dal finestrino con la madre musulmana praticante che non immagina nemmeno che la figlia abbia potuto bere alcolici, e con il padre più moderno e di più larghe vedute che invece lo ha capito benissimo e mente spudoratamente alla moglie per proteggerla. Lo stesso padre che, anziché adirarsi, adora il video di Losing my religion e porta le ragazze in giro per replicare la loro esibizione in ogni festa curda della città, la stessa madre più tradizionalista e conservatrice che invece trova il video offensivo e non lo riesce proprio a capire, e poi un fratello che parallelamente si infila in una baby gang fra video TikTok di devastazione (fra cui un maiale sgozzato, unico momento in cui sembra di riconoscere la mano produttiva di Ulrich Seidl in un film che per il resto, a livello stilistico e di calore umano, fa l’esatto opposto del suo cinema) e piccoli guai giudiziari, e che solo lo scudo familiare, se necessario ai limiti della violenza, saprà riportare sui libri e alla vita vera. Vicende quotidiane dell’adolescenza e di una doppia appartenenza culturale, ma anche e soprattutto di cellulari che filmano gli schermi di altri cellulari che a loro volta stanno filmando l’irreale, come immagini che si moltiplicano all’infinito rimbalzando da un dispositivo all’altro. Come istanti di una vita e di una società inevitabilmente su più piani, in cui è così difficile trovare un punto in cui riuscire a stare definitivamente in equilibrio.